Dopo l’enorme successo di critica e di pubblico, il film “L’ultimo turno” resta in programmazione nella città di Roma ancora per una settimana, almeno fino al 24 settembre, al cinema Mignon, con la possibilità, nei prossimi mesi, di qualche proiezione extra in collaborazione con istituzioni del territorio.
Ecco qualche impressione a caldo, dopo aver visto l’opera al cinema insieme a tanti colleghi di OPI ROMA
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“Il problema non è la nostra professione, sono le circostanze”.
Dal saggio-romanzo così intitolato, opera dalla giovane infermiera tedesca Madeline Calvelage, prende le mosse il film “L’ultimo turno”, di Petra Volpe, unico caso di lungometraggio autoriale interamente dedicato alla professione infermieristica, dal primo all’ultimo fotogramma.
È un film girato a Zurigo, con un cast e una produzione svizzero-tedesca. Tuttavia, si presenta come una storia universale sulla condizione (umana prima che lavorativa) di una figura cardine per una società occidentale sempre più anziana, patologica, assediata da malesseri fisici e morali.
Non si può prescindere però dall’ambientazione elvetica. Quegli ospedali pulitissimi, silenziosi, ordinati, ipertecnologici vengono spesso descritti come “La Mecca” per gli infermieri di tutta Europa, per via di una migliore organizzazione del lavoro e per gli stipendi dal valore doppio rispetto alla media, ad esempio, italiana.
Circostanze favorevoli, che non leniscono le sofferenze di una professione. E l’incedere documentaristico del film descrive benissimo le dinamiche, interne ed esterne, di un duro turno di lavoro notturno.
Per la serie: non solo è la leva economica a rendere un impiego più gradevole e attrattivo, a evitare episodi di burnout, ma tutto un insieme, appunto, di circostanze.
È un microcosmo fatto di egoismi, fisici e morali, quello rappresentato nel film. Tutti reclamano una loro “imprescindibile” esigenza, un bisogno ‘maslowiano’ da soddisfare… hanno una richiesta più o meno sensata da gridare: chi pretende un tè verde, chi una visita medica che non arriverà mai. Chi vuole fumare una sigaretta nonostante sia attaccato a una bombola di ossigeno, chi telefonare in ufficio prima di entrare in sala operatoria, chi semplicemente rivedere il marito.
Terminale di tutto e di tutti, l’infermiera Floria, interpretata dall’attrice tedesca Leonie Benesch, preparatissima e credibilissima, come lo era stata da docente nel pluripremiato “La sala professori”.
Arrivati ai titoli di coda, l’empatia del pubblico è sicuramente tutta dalla sua parte, malgrado la sua corsa continua contro il tempo le faccia commettere anche dei gravi errori.
Ma non si empatizza con gli infermieri per pietà, per compassione, per atteggiamento caritatevole.
Le frasi e i dati che la regista porta in evidenza dopo l’ultima struggente inquadratura non lasciano spazio a dubbi: il problema degli infermieri è il problema di una intera collettività.
Si parla di Svizzera, ma con il chiaro intento di suonare un campanello d’allarme per tutti i Paesi in cui il film sarà distribuito.
Una piccola storia che contiene un enorme interrogativo posto a ciascuno di noi: è giusto che le professioni di cura siano così poco raccontate e valorizzate, in un mondo che avrà sempre più bisogno di loro?
Esemplari le dichiarazioni della regista Petra Volpe dopo una delle anteprime riservate alla stampa: “Il tema della cura mi interessa da molti anni. Per un lungo periodo di tempo ho vissuto insieme a un’infermiera e ogni giorno sono stata testimone di quello che sperimentava sul lavoro, nel bene e nel male, e che in gran parte dipendeva dalle situazioni che diventavano sempre più proibitive. A mio parere è una professione che la nostra società dovrebbe tenere in grandissima considerazione e rispettare profondamente. Per questo ho voluto fare un film che li celebra, senza alcuna retorica”.